The Nothing Island
 
prototype for a new work

 

 

Un lavoro di Fabrizio Favale & First Rose

 

 

Coreografia Fabrizio Favale

Danzatori Daniele Bianco, Daniel Cantero, Giuseppe Catalfamo, Matteo Di Ciommo, Martina Di Giacomo, Fabrizio Favale, Alessandro Girardi, Alicia Ianeselli, Valentina Verini

Knitting a cura di Atelier Della Lana Bologna

Pappagalli a cura di Animal Spot Milano

Piante rare a cura di Poti Pota, Bologna

Sleeping boys Filippo Pagotto, Filippo Scotti

Visual Arts Valentina Palmisano

Musiche Alex Somers, Pascal Pinon, Rökkurró

Costumi, atmosfera e spazio First Rose

Assistente alla coreografia e maestro di ballo Po-Nien Wang

Tecnica Roberto Passuti

Project manager Andrea A. La Bozzetta

Prodotto da KLm – Kinkaleri / Le Supplici / mk

Con il contributo di MIC, Regione Emilia-Romagna, Comune di Bologna

In collaborazione con Ex Chiesa di San Mattia, sostenuta dal MIC – Musei Nazionali di Bologna – Direzione Regionale Musei Nazionali Emilia-Romagna

Lavoro realizzato in residenza artistica presso Teatro Consorziale di Budrio

 

 

Art work First Rose

 

 

 

 

Con questo esperimento la compagnia presenta in anteprima il prototipo che testa le basi di un futuro lavoro e della sua modalità compositiva.

Nel centro della città di Bologna, per due giorni consecutivi, l’esperimento affianca nello stesso luogo e per un tempo determinato presenze e attività di natura molto diversa: coreografia, realizzazione di manufatti, creazione di opere artistiche, accadimenti estemporanei del quotidiano, piante e animali rari.

 

 

 

 

PRESS REVIEWS

 

 

Prove di un mondo antispecista: Fabrizio Favale & First Rose a Bologna per Danza Urbana
 
Tre pappagalli rari e grandi come gatti, giallo-blu o candidi, appollaiati sui trespoli davanti a una cappella sul lato sinistro della chiesa di San Mattia a Bologna; dietro di loro i trasportini e le tutor/accompagnatrici. Nella cappella a fianco, in una nicchia, la statua di una santa decapitata fin sotto le spalle; davanti all’altare due sferruzzatrici a maglia, in testa il chullo peruviano di alpacca col paraorecchie. All’ingresso della chiesa, una costruttrice e disegnatrice di dodecaedri e altre geometrie cartacee; nella prima cappella di sinistra due saccopelisti (o è un’eco di realtà dei tanti senzatetto che vivono sotto i portici di Bologna, frutto delle sempre più stridenti disuguaglianze?). Sulla controfacciata un’ Annunciazione piena di ingenua espressività interrompe le grate della cantorìa dietro alle quali, immaginiamo, le famiglie patrizie e le monache domenicane fondatrici di questa chiesa conventuale potevano assistere alle celebrazioni, come era d’uso, senza essere viste.
Non è per nulla neutrale il modo in cui l’Ex Chiesa di San Mattia a Bologna reagisce e interagisce con The nothing island (prototype for a new work) di Fabrizio Favale & First Rose, presentato in esclusiva per il Festival Danza Urbana di Bologna. Ai tanti segni sopravvissuti in questa chiesa pur pesantemente depredata nei secoli, gli stucchi, le pitture, le sculture, Favale e First Rose aggiungono “trovate” compositive e installative che ci sembrano in un certo senso quasi rivisitazioni ironiche del fattografismo del teatro russo del Novecento. Solo che al posto delle moderne aziende agricole e delle opere ingegneristiche del nuovo mondo sovietico, qui sono inseriti “fatti” minimi del quotidiano, irrelati, parvenze del mondo animale, vegetale e umano, che integrano il momento performativo mettendolo in contatto artistico-visivo e concettuale con entità poste in un perimetro di confine, in un limbo che fa parte integrante dell’atlante universale della creazione.
Fatto sta che gli spettatori, disposti lungo i quattro lati, ricevono stimolazioni visive e uditive da ogni parte mentre la scena è sincronicamente attraversata dai performer, a diverse ondate, in più entrate e uscite dalle quinte, quasi in successive e multiple processioni o sfilate: a coppie, a piccoli e grandi gruppi, in assolo, da una porta che immette nell’altare della Chiesa.
Intanto un pappagallo fischia, vocalizza, apre la lunga coda, uno degli sleeping men si sveglia, si alza e passa davanti al pubblico. Non è un’opera chiusa, ma un ecosistema, di segno antispecista, che include brani ed esemplari di vita vivente, in cui il paesaggio umano, che è solo una parte, non il tutto, è costituito dal pubblico e dai corpi di otto persuasivi performer, felici della loro giovinezza e del loro incedere leggero, preciso ed eretto: tre danzatrici, Martina Di Giacomo, Alicia Ianeselli, Valentina Verini e cinque danzatori: Daniele Bianco, Daniel Cantero, Giuseppe Catalfamo, Matteo Di Ciommo, Alessandro Girardi.
La lingua dei loro corpi sembra perlopiù quella di uno zibaldone di appunti, il test di una coreografia da costruire: le prime pennellate di una tela neo-astrattista, che nella loro solo apparente indefinitezza segnano però il primo passo, decisivo per l’individuazione del tono stilistico di fondo, di un’atmosfera cinetica che formerà lo strato-base del lavoro che verrà. Sono disegni e traiettorie di costruita casualità, di voluta non consequenzialità, che contengono ricordi di nobili tradizioni della danza moderna e contemporanea, ma come appena accennati e poi variati in neo-morfologie improvvise, difficili senza sembrarlo. Un’ambiguità di segni che si ritrova nelle sembianze dei performer, nelle tute e canotte e calzini da palestra, con ambivalenza d’effetti nelle danzatrici: i capelli strettamente raccolti in chignon da ballerine classiche, il trucco accentuato e le espressioni solenni, separate da tutto ciò che le circonda, indicazioni visive temperate però dalla ferialità dei costumi, dai pantalonacci delle tute Adidas, anch’essi contraddetti ulteriormente dalle canottine slimfit.
Performer, pappagalli, piante rare, uomini dormienti, magliaie sembrano rimandare, visitati come sono da un discorso sonoro naturale e pre-musicale, da una sintassi di soffi, sussurri, sibili e fischi di vento, a un mondo esterno, forse freddo, come sembrano dirci anche i copricapi in uso nelle Ande e i sacchi a pelo. Sembrano evocare quasi senza parere la speranza di un’Utopia, di un’isola del nulla che potrebbe essere un new world, più ancora che un new work, come recita il titolo del lavoro. Certo un universo, anzi un multiverso, non più, si spera, antropocentrico.
Di Olindo Rampin, Bon-Vivre.net

 

 

Bologna abbraccia Danza Urbana, lo storico festival immerso nella città

 

La chiusura del festival è affidata a The Nothing Island di Fabrizio Favale & First Rose, il quale crea un’isola immaginaria, piena di persone, manufatti, piante rare, pappagalli, suoni sospesi. Un paesaggio scenico in cui l’accadimento è affidato anche al caso, e lo spettatore impara a scrutare le rette invisibili fra gli elementi.
Effettivamente lo sguardo vaga liberamente dentro la grande struttura ecclesiastica, dove, sotto una nicchia, due uomini sono sdraiati in un sacco a pelo, davanti agli spettatori vicinissimi; una giovane artista artigiana crea sculture di carta forma tridimensionale e geometrica, sul fondo due donne lavorano a maglia mentre tre signore, proprietarie delle tre aree, di tanto in tanto, in modo imprevedibile, emettono il loro verso acuto. Dentro questo enorme spazio per lo sguardo, contrappuntato dalla presenza di piante grasse in alcuni casi anche monumentali, i danzatori si muovono con un’eleganza da passo classico, fra battements tendu, allongè, port de bras e bras bas; o con palmi distesi, o con le braccia che vanno al cielo quasi ad accogliere un qualcosa di divino, uscendo dallo spazio per poi rientrare in nuove formazioni con quattro o cinque elementi, prima di alcuni assoli finali.
La musica è minimale: all’inizio è quasi un cupo suono simile a quello di una grande ventola, che fa piombare la chiesa nel silenzio quando viene smorzato. Poi altre tracce: su una nota bassa mantenuta, di tanto in tanto si intuisce una piccola melodia di tre, quattro note a ripetersi. Una situazione immobile, in cui la danza irrompe in uno spazio in cui lo spettatore fa girare lo sguardo in modo imprevedibile, così come i pensieri. Un lento flipper mentale, in cui i pensieri vagano in forme e direzioni imponderabili, mentre gli occhi abbracciano i movimenti dei danzatori. Un’opera dall’evidente portata installativa, oltre che coreografica. Una composizione ispirata e tenue.
Di Renzo Francabandera, paneacquaculture.net